“Sióra maschera, la riverisco”: cos’è la Baùta, unica maschera unisex

Poche maschere possono essere considerate emblema del carnevale veneziano quanto la Baùta. La Baùta (o Baùtta) è il più tipico e tradizionale travestimento della città lagunare e raccoglie nella sua forma e nella sua storia tutta l’essenza del carnevale in maschera della Serenissima.

Va considerato infatti che l’origine del mascheramento non era esibire un costume, ma piuttosto rendersi irriconoscibili e poter quindi prendere parte alle feste del carnevale – ma non solo del carnevale – senza dare nell’occhio o essere riconosciuti.

A differenza di altre maschere tipiche veneziane, la Baùta è un costume unisex, permette di camuffarsi completamente e distorce anche la voce. Allo stesso tempo consente di mangiare e bere senza smascherarsi. Prende il nome da un mantellino usato come sopravveste che aveva lo scopo di coprirsi petto, spalle e capo, per, appunto, nascondere la propria identità.

Grazie al perfetto anonimato che garantisce, la Baùta inizia a diffondersi intorno al XVI secolo, per diventare presto un vero e proprio status symbol, sfruttato da nobili e popolani allo stesso modo, proprio allo scopo di confondersi gli uni con gli altri. Di conseguenza non mancarono nemmeno le leggi indirizzate a regolarne l’uso. Anche se era la maschera più tollerata nel corso dell’anno, il suo utilizzo era limitato a seconda dei luoghi frequentati, della professione svolta, dell’orario o delle contingenze. Era vietata ad esempio nei luoghi di gioco d’azzardo e nei postriboli, era preclusa in pubblico ai croupier e alle prostitute, era consentita solo dopo mezzogiorno e vietata di notte, ed era proibita durante le pestilenze. Contemporaneamente divenne quasi un obbligo mascherarsi nelle cerimonie e feste pubbliche, nelle botteghe del vino (malvasie), per le donne che andassero a teatro o per approfittare sotto anonimato delle licenze carnevalesche.

Due classiche baùte. © Ph.: L.Bosello.

L’intero mascheramento chiamato “Baùta” prevede la maschera, lo “zendal”, il “tricorno”, e il “tabarro”. L’insieme ha il duplice scopo di coprire interamente la figura e confondersi nella folla grazie agli indumenti più diffusi dell’epoca.

La maschera, denominata inizialmente “larva” o “volto”, e poi anch’essa Baùta per estensione, è di gesso, cuoio o cartapesta, ricopre tre quarti del volto lasciando il mento scoperto. In origine era completamente nera, poi si diffuse anche in bianco.

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Lo “zendal” è uno scialle che copriva il capo, le spalle e il petto delle dame, dotato di un foro per il viso, diffusosi a Venezia nel XVII secolo, secondo la moda delle donne alla corte dello Scià di Persia (da cui il successivo nome “scialle”). Posto sotto al “tricorno”, il popolare cappello a tre punte, lo “zendal” rende completamente irriconoscibili, motivo per cui si diffuse presto anche tra gli uomini.

Il “tabarro” nero, infine, un lungo e pesante mantello a ruota, aveva più di un vantaggio: oltre a proteggere dal freddo, uniformava le classi sociali dato che era un indumento popolano e permetteva oltretutto di nascondere le vesti troppo sfarzose, che i nobili poi esibivano alle feste private una volta tolto il soprabito. A tal proposito, va ricordato che il governo della Repubblica Serenissima era dotato di un “magistrato alle pompe”, incaricato di regolamentare gli sfarzi delle famiglie veneziane per evitare gli sperperi di denaro, dato che la loro ricchezza era la ricchezza della città.

Il fatto che non si possa sapere chi si nasconda dietro una Baùta rese presto un atto dovuto e cortese salutare ogni maschera con il rispetto e la deferenza riservata ai nobili, solitamente con la frase “Siora maschera, la riverisco”, e questo è probabilmente il più lampante esempio di quanto i travestimenti carnevaleschi uniformassero per qualche mese all’anno la società veneziana, consentendo ai nobili di indugiare in sicurezza nei comportamenti e nei luoghi più popolari e ai più poveri di assaggiare la vita dei gran signori.

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